La salama da sugo ferrarese - Il racconto di Emanuele Spader

 


 Ferrara è una città meravigliosa e strana: un gioiello di 

architettura rinascimentale di cui non si sa cosa ammirare 

maggiormente: se il meraviglioso Castello nel cuore della Città 

o il Palazzo Diamanti o il Duomo, in cui i vari stili architettonici 

si fondono mirabilmente.

Il fascino della città è caratterizzato dalla nebbia, che per molti mesi dell’anno avvolge la città ed i suoi monumenti e a volte sembra permeare anche gli animi dei ferraresi, un po’ introversi e quasi gelosi delle loro glorie e poco propensi a condividerle con gli altri.

Ciò non vale solo per i tesori artistici, ma anche per quelli gastronomici. Un esempio di ciò è la poco conosciuta “Salama da Sugo”, per la quale è stato costituito un apposito Comitato per ottenere l’IGP, ottenuto il quale però non è stata fatta nessuna azione di promozione per far conoscere, al di là dei confini estensi questo autentico gioiello gastronomico.

E’ un insaccato dalla tipica forma rotondeggiante a spicchi, fatto con la vescica del maiale, riempita di sola carne di suino: coppa di collo, pancetta, lardo di gola, fegato e lingua, macinati e conditi con sale, pepe, vino rosso. La forma particolare gli deriva dalla legatura con spago grosso, in modo da formare 8 spicchi.

La Salama viene prima lasciata a maturare in ambiente caldo e ben ventilato per alcuni giorni, poi è messa a stagionare per più di 6 mesi (ma un anno è ideale) in locali freschi e bui ed arieggiati bene.

La Salama va preparata cotta, operazione estremamente delicata, come insegnavano il mitico Enzo Tassi e successivamente il figlio Roberto, ristoratori di Bondeno che sono stati i veri profeti della Salama da sugo, facendola degustare a tanti personaggi famosi, da Mario Soldati a Indro Montanelli, da Alberto Lupo a Marcello Mastroianni e Faye Dunaway e Tony Curtis, da Vittorio De Sica e Sophia Loren a Robert De Niro.

Innanzi tutto la salama va avvolta in una pezzuola di tela di cotone e tenuta a bagno per una notte; poi, dopo averla pulita con grande delicatezza le incrostazioni esterne e le eventuali muffe formatisi all’esterno, va messa all’interno di una pentola d’acqua, (sempre avvolta in un sacchetto di tela o in quelli da cottura) appendendola, con l’anella dello spago da cui è legata ad un cucchiaio da cucina, posto di traverso sulla pentola, in modo che la salama sia completamente immersa nell’acqua ma non tocchi il fondo del tegame. Si porta quindi lentamente l’acqua in ebollizione e si prosegue la cottura per almeno quattro ore. L’importante è evitare che si rompa la vescica facendo fuoriuscire…il sugo che dà il nome al manicaretto!

C’è invece chi, per maggior sicurezza preferisce cuocerla a bagnomaria.

Quindi, tolti i lacci, si pone la salama, su un piatto di portata e la si porta fumante in tavola. Anche la cerimonia dell’apertura è delicata: va incisa sulla sommità con un taglio a croce poi, aperti i quattro lembi, si estrae il contenuto con un cucchiaio, distribuendolo ai commensali, magari ponendola su un letto di purè o di zucca; infine si raccoglie il vino di condimento, che in cottura si è raccolto sul fondo, distribuendolo sulla carne.

Alcuni servono la Salama anche fredda, magari abbinandola col melone, ma a mio avviso così perde le sue eccezionali caratteristiche, tra cui quella …del sugo da cui deriva il nome.

Nonostante la il suo delizioso sapore, non bisogna esagerare con le quantità, perché si tratta di un alimento molto calorico, oltre che dalle supposte proprietà afrodisiache.

A proposito di quest’ultima qualità, Giuseppe Longhi specifica che tradizionalmente la Salama veniva servita ai novelli sposi nelle cerimonie nuziali “par metar in tal sangv un poch ad murbìn” , mentre Pastonchi scrisse: “Davvero io credo che l’abbiano inventata per i loro uomini le Donne di Casa d’Este”,


Gianluigi Pagano




 

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